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Jun 20, 2025

Efficienza ed empatia. L’ago della bilancia della customer experience nel 2025

Bianca Niola

Brand Manager Hirooks

Oggi quasi tutte le aziende hanno customer journey ben strutturati: chatbot attivi, CRM integrati, notifiche puntuali, tracking degli ordini, flussi di acquisto fluidi. Ma se dal punto di vista funzionale tutto sembra al proprio posto, allora perché, anche dopo esperienze impeccabili, tanti clienti si dichiarano insoddisfatti?

Secondo una ricerca di PwC, infatti, il 32% dei consumatori abbandona un brand dopo una sola interazione negativa, indipendentemente dalla qualità del prodotto, e sono disposti a pagare fino al 16% in più per un’esperienza superiore. Questi dati suggeriscono un disallineamento profondo tra ciò che le aziende offrono e ciò che i clienti realmente percepiscono come valore.

Anche quando il servizio è impeccabile, spesso le esperienze non lasciano tracce. La causa? Un eccesso di automazione, che rende l’interazione omologata, impersonale, priva di calore. E in un mercato in cui prodotti e offerte si somigliano sempre di più, questa mancanza di differenziazione emotiva diventa un problema strategico.

Dalla stessa ricerca emerge che solo il 3% degli utenti desidera un’esperienza completamente automatizzata, mentre il 71% continua a preferire l’interazione umana nei momenti critici. E il 63% è pronto a condividere i propri dati, ma solo se riceve in cambio un’esperienza personalizzata e rilevante. La vera sfida, oggi, è quindi trovare l’equilibrio tra automazione e umanità, tra efficienza e connessione. L’AI, in questo contesto, può diventare uno strumento strategico se usata per alimentare un’intelligenza relazionale e non solo operativa.

Abbiamo raccolto alcune delle riflessioni più significative emerse in questi mesi per capire come stanno evolvendo le aspettative e in che modo le aziende più consapevoli si stanno adattando. Riportiamo quindi in questo articolo i punti salienti emersi e utili da conoscere.

1. Customer experience: cosa cerca l’utente nel 2025

el discorso manageriale sulla customer experience si tende ancora a considerare l’esperienza come qualcosa che parte dall’azienda, ossia un flusso attivato secondo logiche prestabilite. Ma oggi l’esperienza non comincia dove inizia il tracciamento aziendale: comincia dal cliente, dalle sue azioni, dal suo contesto, spesso prima ancora che l’azienda ne sia consapevole.

Questa inversione di prospettiva ha impatti profondi. Molte organizzazioni continuano a progettare esperienze reattive, come se fossero ancora loro a decidere quando e come attivare la relazione. Ma il cliente si muove secondo una logica di continuità e pretende coerenza tra canali, linguaggi, interazioni. Oggi non si premia chi risponde bene, ma chi capisce prima. L’omnicanalità non è più una leva strategica, è oramai un prerequisito e quello che davvero fa la differenza è la capacità di orchestrare i canali come un unico organismo fluido, in grado di adattarsi in tempo reale e di mantenere memoria.

Inoltre, il tempo è diventato la valuta relazionale più preziosa. Non solo nel senso di risposte rapide, ma di processi semplificati, frizioni rimosse, comprensione del contesto. Secondo PwC, il 43% dei clienti pagherebbe di più pur di non perdere tempo. Perché il tempo, oggi, è la misura della cura.

E poi ci sono i momenti critici; ossia quando qualcosa non funziona, quando il cliente è frustrato, incerto, arrabbiato. In questi snodi, il bisogno di umanità torna centrale. Il 71% delle persone continua a preferire l’interazione umana nei momenti difficili, perché sa che è proprio lì che si misura il rispetto, la responsabilità, la presenza.

A conferma di quanto emerso, il grafico qui sotto (tratto dalla ricerca PwC: Experience is Everything) mostra con chiarezza cosa conta davvero per i clienti quando valutano un’esperienza. Al di là dei trend tecnologici, le persone continuano a premiare elementi concreti come efficienza, cordialità, competenza e semplicità. Sono questi i fattori per cui sono disposte a pagare di più, e che segnano la differenza tra un'esperienza che funziona e una che si dimentica.


2. L’esperienza perfetta non basta più

Come accennavamo prima, molte aziende si sono impegnate per anni a rendere la CX perfetta, ma oggi, l’esperienza tecnicamente impeccabile non basta più.

Perché oggi non è la perfezione a fare la differenza, è la rilevanza. E ciò che è tecnicamente corretto non è necessariamente significativo. In un mondo dove ogni brand può offrire funzionalità, a distinguere davvero è la capacità di lasciare una traccia.

Le aziende più consapevoli lo hanno capito, la sfida non è migliorare ogni touchpoint, ma capire quali momenti contano davvero e renderli memorabili. Non tutto deve sorprendere: solo ciò che pesa davvero nella relazione.

3. Massima empatia, in ogni punto di contatto

Parlare di empatia è diventato un cliché, ma integrarla davvero nella CX è tutt’altro che scontato. Molte aziende comunicano empatia a livello valoriale, poche la progettano a livello esperienziale.

Il primo passo è l’ascolto attivo digitale: captare segnali impliciti, analizzare il sentiment, riconoscere i pattern relazionali. L’obiettivo non è solo reagire ma anticipare e comprendere, più che monitorare.

Segue la coerenza emotiva tra touchpoint. Non basta usare un tono gentile,  serve garantire continuità nell’intenzione relazionale. Un cliente che ha appena espresso frustrazione non può ricevere una notifica neutra. Il design relazionale deve tenere conto dello stato emotivo, dello storico, della sensibilità.

Infine, le aziende più avanzate stanno progettando momenti relazionali, non solo touchpoint funzionali, come ad esempio un messaggio inatteso dopo un acquisto complesso, un check-in post-assistenza, gesti di attenzione nei momenti che contano.

4. Umanizzare l'esperienza d'acquisto. Tra i trend c'è l'AI.

In questo scenario, l’intelligenza artificiale sta diventando il fulcro della customer experience, non solo come strumento di automazione, ma come volano per progettare relazioni più intelligenti, personalizzate e umane.

Le aziende più avanzate non la usano per ridurre i tempi di assistenza o automatizzare ogni interazione, ma per guidare l’esperienza; quindi per rilevare esitazioni, segnali deboli, anomalie. In questo modo, la CX passa da reattiva a predittiva.

Grazie ai modelli di customer intelligence, alcune organizzazioni adattano in tempo reale il tono dei messaggi, attivano l’intervento umano nei momenti ad alto impatto, gestiscono il canale in base al contesto.

Un caso visto durante un evento Salesforce lo illustra bene: un cliente richiede il reso di una giacca. L’interazione avviene via telefono, ma è totalmente gestita da un sistema AI che simula in modo naturale ritmo, tono e pause. L’aspetto interessante arriva dopo: l’AI geolocalizza il cliente, rileva le condizioni meteo e suggerisce in tempo reale un nuovo prodotto più adatto. Il risultato? Un cliente che si sente ascoltato, compreso e accompagnato.

Le aziende che investono in questa direzione osservano benefici concreti, tra cui maggiore soddisfazione, perché l’esperienza risulta più naturale; maggiore fidelizzazione, perché il cliente percepisce una relazione continua, centrata su di lui.

Ecco perché molte organizzazioni stanno rivedendo anche le metriche. Accanto a NPS e CSAT, emergono indicatori come la qualità predittiva, il riconoscimento percepito, la coerenza tra canali e team.

Un approfondimento pratico:

In un precedente articolo abbiamo proprio parlato di un caso concreto di questo equilibrio tra automazione e relazione, raccontando il progetto sviluppato per Dimann, azienda specializzata nella cura e prevenzione della cistite. In un momento di forte crescita, l’integrazione dell’AI nel customer care ha permesso di migliorare efficienza e KPI aziendali, senza però sacrificare l’empatia che da sempre caratterizza la relazione con i clienti, un aspetto ancora più centrale quando si parla di salute e benessere.

Riassumiamo tre delle leve strategiche per una customer experience ad alto impatto

Per tradurre questi concetti in azione, servono cambiamenti non solo tecnologici ma culturali. Quindi ci sono tre leve da tenere a mente e su cui conviene agire:

1. Automatizzare solo ciò che migliora l’esperienza
Non tutto ciò che si può automatizzare va automatizzato. L’AI deve essere invisibile, utile, contestuale. Quando diventa un filtro tra cliente e brand, non genera efficienza ma distanza.

2. Integrare l’umano nei momenti critici
Il supporto umano non è il piano B. È la risposta giusta quando la relazione lo richiede. Serve progettare i flussi affinché l’intervento umano sia abilitato da dati, previsto nei journey, supportato dalla tecnologia.

3. Misurare la qualità relazionale, non solo quella operativa
Volume e tempo di risposta non bastano più. Vanno affiancati da metriche che misurino fiducia, riconoscimento, coerenza, anticipazione. Solo così si potrà capire se la CX sta generando vero impatto.

Per concludere, quindi, come poter restare rilevanti in un mercato così esigente di consumatori?

La battaglia dell’esperienza clienti non si vincono con la tecnologia più potente, ma con la tecnologia più umana e sempre più studi lo confermano. La maggior parte delle persone, in particolare quando qualcosa va storto, desidera un contatto umano autentico. Solo una minima parte, meno del 5%, riconosce di volere un’esperienza totalmente automatizzata .

Questo accade perché, come evidenziato in diverse ricerche, l’automazione suscita avversione non tanto per come funziona, quanto per i suoi limiti in termini di empatia, contesto e responsabilità . E quel micro-momento di frustrazione da “risposta fredda” può diventare il motivo per cui un cliente decide di andarsene.